Adotta un filosofo: Massimo Adinolfi sull'Europa oggi
“Che cos’è l’Europa, oggi?” è la domanda con cui ieri ha iniziato il suo intervento Massimo Adinolfi, il filosofo che il Liceo Classico Pietro Giannone ha “adottato” e che è anche il curatore dell’iniziativa “Adotta un filosofo”, promossa dalla Fondazione Campania dei Festival, presieduta da Alessandro Barbano. In un’aula gremita di studentesse e studenti, Adinolfi, professore di Filosofia Teoretica presso l’Università Federico II di Napoli, ha approfondito il tema del progetto che coniuga filosofia e cittadinanza, logos e polis, per una partecipazione critica e consapevole alla vita civile e che vede impegnati i giovani in scelte fondamentali per il loro futuro.
Tralasciando i riferimenti classici alla tradizione, alla cultura e all’eredità spirituale, Adinolfi ha premesso di voler sospendere il linguaggio della filosofia e tornare al mondo, a quell’attualità con cui i giovani possano concretamente confrontarsi e in cui rintracciare le specificità dell’appartenenza all’Europa. E, in tal senso, si è chiesto e ha chiesto: che cosa abbiamo soltanto noi come Europei? Che cosa ci distingue in modo peculiare rispetto ad altre formazioni geopolitiche? Il rifiuto della pena di morte. È questo ciò che è esclusivo e che non ha un corrispettivo in altre realtà, almeno in quelle estese quanto il continente europeo di cui, tra l’altro, è difficile anche definire in modo netto i confini strettamente geografici.
Il significato di ciò che è da considerare un grande punto di civiltà, che ritrova in Beccaria il suo teorico e nel Granduca di Toscana, Pietro Leopoldo, il primo sovrano ad averlo formalizzato, però, non è solo morale, ma essenzialmente politico poiché chiama in causa altre categorie, in particolare quella di sovranità. Una prerogativa della sovranità era, infatti, in passato il diritto di applicare la pena capitale, di mettere a morte chiunque il re volesse.
La nostra Costituzione, all’articolo 1, sancisce che la sovranità appartiene al popolo che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione. Cosa, però, definisce un popolo? Che cos’è un popolo? Possiamo considerare, continua Adinolfi, due accezioni di popolo, quella che ci rimanda il modello contrattualistico di Hobbes per il quale di popolo si può parlare solo dopo il pactum unionis con cui nasce lo Stato civile, prima del quale è solo una moltitudine, e quella di un popolo che si proclama tale perché si sente tale. Nella prima accezione il popolo è legittimato dalla forma giuridica che ha assunto dopo il patto, nel secondo dal suo senso di appartenenza a una realtà come quella di nazione. “Noi siamo l’Italia” ne è un esempio. Il dilemma, però, che si pone è: si fa parte del popolo italiano perché titolari di un diritto o si è titolari di un diritto perché si è italiani? È in gioco il rapporto tra legge e cittadinanza.
L’articolo 1 cui abbiamo fatto riferimento è riferito al popolo italiano, ma esiste un popolo europeo? E può esistere una sovranità senza un popolo? È indubitabile che l’Europa abbia oggi un problema con il concetto di sovranità e che ci interroghi sulla costruzione di uno spazio politico in cui possa esserci un potere sovrano. Potere sovrano esercitato da chi?
In Europa non c’è una Costituzione, ma c’è un popolo. Essa è una dimensione necessariamente sovranazionale, continua Adinolfi che ricorda, in proposito, un importante articolo del 2003 sulla reazione europea in occasione della crisi irachena con l’appello di Habermas e Derrida. I due filosofi, allora entrambi viventi, si interrogavano sul futuro dell’Europa, ipotizzando che avesse bisogno di una nuova spinta, non solo di natura economica, ma basata su un “sentimento di comune appartenenza politica.” I popoli, cioè, dovevano “soprelevare” le loro identità nazionali e arricchirle di una dimensione europea. E, infatti, il problema è esattamente l’identificazione tra popolo e nazione e la capacità di “soprelevarsi”.
Qual è il luogo in cui entra in scena il popolo? È il Parlamento, risponde Adinolfi, istituzione oggi minacciata, se non addirittura umiliata, ma organo alto, quello che esprime la rappresentanza del popolo. La sua sovranità. A tale proposito Jean Jacques Rousseau scrive: “La sovranità non può essere rappresentata per la medesima ragione per cui non può essere alienata; essa consiste essenzialmente nella volontà generale, e la volontà non si rappresenta: o è essa medesima o è diversa, non c'é una via di mezzo. I deputati del popolo non sono dunque, né possono essere, i suoi rappresentanti, ma soltanto i suoi commissari: non possono concludere nulla in maniera definitiva. Ogni legge che il popolo in persona non abbia ratificata è nulla, non è una legge.” Rousseau postula, come è noto, una democrazia diretta, esercizio di potere sovrano da parte del popolo.
Perché, allora, la rappresentanza? Essa, riprende Adinolfi, non è solo un strumento ma qualcosa che si sceglie in ordine ad alcuni elementi: in ragione dell’efficienza, della sua razionalità o per una superiore verità. Il criterio dell’efficienza è un criterio debole, dal momento, sottolinea il professore, che oggi il web ha risolto il problema logistico della democrazia diretta; quello della razionalità è egualmente contestabile perché richiede un filtro tra la volontà e la sua espressione attraverso la riflessione, non sempre da tutti accettata. Resta un principio di superiore verità fondato sul fatto che la mia volontà sia portata a espressione non da me stesso ma da un altro. Non è cosa insignificante. È quello che avviene nell’opera d’arte, ad esempio, in cui, come sostiene Maurice Merleau-Ponty, si supera il paradigma soggetto-oggetto. L’opera d’arte non si riduce a raffigurare semplicemente il mondo esterno, ma permette al suo creatore di poter dialogare con esso, consentendo che possa parlare attraverso di lui.
La rappresentanza è come il ritratto: un ritratto è vero non nella misura in cui somiglia al soggetto, ma in quanto fa emergere tratti in cui il soggetto si riconosce. È la distinzione tra l’io e il sé che è sempre indiretto, costruito attraverso la mediazione dell’altro. E ritorna Derrida. Ritorna Habermas.
Il sé che dobbiamo costruire è esattamente il sé europeo. È una costruzione lenta e complessa di una comune identità politica. Si tratta di un processo lungo ma, d’altronde, quello di unificazione delle nazioni, quello di unificazione dell’Italia è stato veloce, immediato, privo di criticità, dissensi, opposizioni? E una volta fatta l’Italia, sono stati immediatamente fatti gli Italiani?
L’Europa ha una lunga storia di cooperazione, di conquiste civili, di cultura illuministica e di lotte per l’uguaglianza, per l’affermazione della forza della ragione sulla ragione della forza. E se c’è da scegliere tra luogo del diritto e diritto del luogo, Adinolfi non ha dubbi: l’Europa è il luogo del diritto.
Teresa Simeone
(apparso su «Il Vaglio»)